Dove ballano le arpie

One Piece

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    The storm is approaching

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    Fandom: One Piece

    Titolo: Dove ballano le arpie

    Rating: SAFE

    Genere: Introspettivo, malinconico

    (Crack) Pairing: Marco/Monet

    Wordcount: 1570 (citazione esclusa)


    COWT Settimana 7, MISSIONE 2 “GLORIOSE ALI SPIEGATE”

    Prompt: 8. Warning: Wing!fic


    "I delfini vanno a ballare sulle spiagge.
    Gli elefanti vanno a ballare in cimiteri sconosciuti.
    Le nuvole vanno a ballare all’orizzonte."

    -Caparezza-




    Che su Punk Hazard è accaduto qualcosa di irreparabile, Marco lo capisce all’istante.
    Lo capisce prima di avvistare l’isola per intero, quando è ancora in volo, ad ali spiegate, e sente il lezzo di sostanze chimiche dipanarsi nell’aria, sbiadite dal vento e dallo scorrere dei giorni, ma nonostante tutto ancora percepibili.
    Sorvola il versante vulcanico ad est e scende di quota. Muove le ali il meno possibile mentre osserva l’area più da vicino. Il calore dei lapilli che di tanto in tanto guizzano fuori dalle pozzanghere di lava lo fa rabbrividire, evocando sgradevoli sensazioni che la sua pelle riconosce fin troppo bene.
    Si lascia alle spalle l’inferno di magma solo per entrare in un altro inferno, più freddo, più desolante; un cimitero di ghiaccio che porta la firma inconfondibile dell’ex ammiraglio Aokiji.
    Non si è mai spinto a esplorare l’entroterra dell’isola, prima di adesso; forse per disinteresse, per prudenza, o per entrambe le cose. Ma stavolta è diverso.
    Stavolta non è lì perché ha smarrito sé stesso, ma perché spera di ritrovare qualcuno.

    «Facciamo un patto...»
    «Sentiamo.»
    «Io non farò domande scomode a te e tu non ne farai a me.
    A questa condizione, possiamo giocare quanto ti pare.»
    «Accordato.»


    Marco capisce che lei non c’è molto prima di vedere le macerie accatastate al suolo.
    Lì dove sorgeva una montagna, adesso c’è una distesa sconfinata di sassi e detriti, smussati solo in parte da strati di neve sottile.
    In mezzo alle pietre, lamiere accartocciate, tubi sconquassati, ferraglie di fondamenta e forse i resti di un condotto d’areazione: i resti maciullati di una struttura industriale, forse una fabbrica o un laboratorio.
    Non sa di che cosa si tratti. Non è niente che gli interessi davvero adesso, e niente che lo avesse interessato mesi fa, quando di lei non conosceva neanche il nome o il colore degli occhi.
    Atterra sulla neve vergine e levigata dal vento e aggira il cumulo di rottami a piedi. Un po’ ci prova a immaginare cosa sia successo; un po’ ci prova a sperare che le cose non siano come sembrano, per lei, ma non ci riesce. Troppe poche sono le informazioni a sua disposizione e troppa è la sua esperienza nel fiutare la tragica verità dietro l’angolo, per quanto si sia rivelata una dote inutile in tutti i momenti cruciali della sua vita.
    Alza lo sguardo e proietta la sua ultima speranza lontano, su quella rupe isolata, non molto oltre le coste dell’isola, che fuoriesce dal mare come il dente di un gigantesco narvalo.
    È lì che l’ha vista per la prima volta.

    «Perché l’hai fatto?»
    «Perché no? È divertente.»
    «Potevi morire!»
    «Non mi sono mai sentita così viva, invece.»


    Non l’aveva notata per le forme generose del suo corpo, per gli occhi del colore dell’ambra, né per i lunghi capelli verdi. L’aveva colpito per la sua incommensurabile follia.
    Lui era proprio lì, mezzo disteso sulla banchisa che solo pochi anni prima doveva essere stata una spiaggia, con lo sguardo perso verso l’alto, nel tappo di nuvole e nebbia che faceva da volta a Punk Hazard.
    Aveva notato la rupe e sulla cima di essa, una figura: la silhouette sottile di una donna avvolta in un mantello.
    Se ne stava in piedi, sporta sullo strapiombo, a fissare il mare a decine e decine di metri sotto di lei.
    Lo aveva incuriosito il fatto che fosse lì, dove il niente incontrava il nulla, sulla cima dell’ultimo posto in cui ci si sarebbe aspettati di vedere un essere umano, ma lei non aveva catturato davvero la sua attenzione fin quando non si era mossa.
    Si era lasciata cadere nel vuoto, di punto in bianco, ed era precipitata dalla rupe.
    Marco aveva sgranato gli occhi col cuore in fibrillazione. Era scattato in piedi, mosso dall’istinto, ma la ragione lo aveva tenuto inchiodato sul posto: anche spiccando il volo all’istante, non avrebbe fatto in tempo a salvarla. Avrebbe forse potuto impedire che annegasse, ma non che il corpo le si sfracellasse contro la scogliera ed era uno spettacolo, quello, dal quale la mente preferiva preservarlo: di arti mutilati, di corpi tumefatti, di ferite mortali ne aveva già impresse a sufficienza nella memoria per una vita intera. Eppure i suoi occhi erano rimasti incollati sulla donna, come per una malsana, perversa curiosità verso il suo gesto suicida.
    Ma quando lei aveva quasi raggiunto il fondo, sfiorando quella linea sottile che separava il mare dall’aria, gli scogli dal vento, la morte dalla vita, era successo.
    Monet – questo era il nome con cui più tardi si sarebbe presentata a Marco - aveva spalancato le braccia, che non erano coperte da un mantello, erano esse stesse ammantate di piume.
    Erano ali.
    Con un battito poderoso, l’arpia le aveva spiegate all’ultimo istante. Poi aveva cominciato a danzare. Planava sul mare, parallela alla superficie dell’acqua, quasi incollata ad essa, con una grazia che Marco non aveva mai apprezzato in nessun volatile e in nessun uomo con paragonabili sembianze. Per la verità, guardando lei che accarezzava l’orizzonte con le sue piume d’angelo, il volo imperioso e fiammeggiante del suo Zoan mitologico, di cui un tempo si era tanto compiaciuto guardandosi riflesso nello specchio dell’oceano, gli appariva per la prima volta goffo e imperfetto. Più simile al volo raffazzonato di un colombo, o delle menure che una volta aveva visto a Jaya, prima di entrare nel Nuovo Mondo, che a quello di un essere nato per respirare nel cielo.
    Monet sembrava esattamente di quell’origine, con quel candore e quell’eleganza con cui sferzava le onde.

    «Perché non resti ancora un po’?»
    «Devo tornare. Ci sono persone che contano su di me...»
    «Capisco.»
    «Perché non vieni con me, una volta?»
    «Anch’io ho persone che contano su di me.»


    È candido ed elegante anche il bucaneve che ora Marco strappa dal terreno. Un fiore piccolo e ricurvo, praticamente invisibile nelle lande ghiacciate di quella parte dell’isola; invisibile come tornava ad essere lei, quando smetteva di danzare sul mare.
    Marco rimane fermo ad osservarlo, ad ascoltare il silenzio che su Punk Hazard non è mai totale. Sopra i gorgoglii lontani dei vulcani in attività, il vento racconta una storia in una lingua sconosciuta.
    Fissa il minuscolo stelo verde alla sua cinta e si alza di nuovo in volo. Raggiunge la scogliera e s’impenna su, sempre più su, lungo la rupe edificata dai basalti, fino a raggiungerne la cima.
    Per un attimo si illude di vederla di nuovo come quasi un anno prima, sull’orlo del precipizio.

    «Balla con me, Marco ‘La Fenice’.»
    «Sei pazza. Nemmeno per sogno!»
    «Ma se non provi, non lo scopriremo mai.»
    «Che cosa?»
    «Se vuoi ancora volare.»


    Non l’aveva convinto subito, ma Marco alla fine aveva ceduto.
    Era uno di quei giorni in cui non buttava semplicemente male; ti passava la voglia di esistere. Dopo la morte del Babbo e di Ace, Marco sapeva che ci sarebbero stati giorni difficili. Giornate dure in cui avrebbe solo potuto prendere atto del fatto che le ferite dei suoi compagni erano incurabili. Giornate grigie in cui non avrebbe neanche voluto alzarsi dal letto, ma avrebbe dovuto farlo, per cercare di tenere uniti i resti di quella che era stata la sua famiglia. Giornate ancora più buie in cui si sarebbe reso conto che non esisteva più una famiglia, ma solo i cocci di un vaso andato in frantumi e ridotto in pezzi troppo piccoli per essere rimessi insieme. Ma la consapevolezza che quelle giornate sarebbero arrivate, non lo aveva aiutato a sopportarle meglio.
    Così, una mattina, aveva dato le spalle ai suoi compagni ed era tornato da lei.
    Lei che non gli faceva domande. Lei che quando si lasciava cadere nel vuoto aveva i suoi stessi occhi, carichi di colpa e di rimorsi.
    Lei che, come lui, certe volte non era più tanto sicura di voler vivere.
    Perciò Marco l’aveva seguita, per scoprirlo come faceva lei, o anche solo per smettere di pensare.
    Voleva solo non ricordare più Ace, né suo padre. Voleva solo non vedere più gli occhi di Izou rossi di pianto, non avere a che fare con gli eccessi d’ira di Fossa, non fare i conti con i sensi di colpa di Squardo e con le accuse mosse nei suoi confronti.
    Monet era in grado di farlo.
    Era in grado di alienarlo, di svuotargli la mente, non solo quando si stringeva a lui, sulla banchisa, quando lo baciava avvolgendolo tra le sue ali; ci riusciva soprattutto quando gli prendeva la mano e precipitavano insieme in quella danza spericolata che li faceva sentire così straordinariamente vivi, un attimo dopo avergli fatto sfiorare la morte.

    «Non intendo più tornare.»
    «Suppongo che questo sia un addio, allora.»
    «...Dovresti smettere di farlo, Monet.»
    «Che cosa?»
    «Qualunque cosa tu faccia qui. È chiaro che ti sta uccidendo.»
    «Non morirò per il mio egoismo, se è questo che temi.»
    «Cosa intendi?»
    «Che la mia vita appartiene a qualcun altro. Morirò solo per lui, se devo.»


    Mentre il sorriso di Monet si spegne tra i suoi ricordi, Marco lascia cadere il fiore giù dalla rupe.
    Il bucaneve disegna qualche ghirigoro nel vento, come una piuma senza peso, fino a raggiungere il mare, e lì si perde.
    Non agonizza tra le onde, non annaspa tra le correnti. Sparisce semplicemente, come il ricordo effimero di un sogno alle prime luci dell’alba, come un cristallo di neve quando non è ancora inverno.
    Svanisce laggiù, tra gli scogli aguzzi e la spuma morbida del mare. Dove ballano le arpie.
     
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